venerdì 23 settembre 2011

Alloro (Lauro nobilis)

Alloro nobilis (Lauro nobilis)
Dal latino (il)lam lauru(m) "l'alloro", con successiva caduta della elle sentita come articolo.
Elémire Zolla ci conduce, dolcemente agli infiniti simboli dell’alloro ... cos’è l’aria? ....
Per la sapienza antica era l’elemento che modellava il macroco­smo e che nell’uomo assumeva forma di fantasia e intelletto.
I cabbalisti dicevano (Zohar, 1 24b) che l’aria è l’emanazione cle­mente (hesedh) della divina sapienza (hokmah), e si manifesta come conoscenza e soavità: grazia. Suo opposto è l’acqua, emanazione se­vera e giudicatrice, aspra e violenta (ghevurah), purificatrice, battesi­male.
Nel gioco degli elementi trasposti all’umano l’aria è dunque la grazia, la sapienza; in termini metafisici: la relativa unione della creatura all’assoluto; mentre l’acqua o rigore o Legge ne è la relativa separazione.
Dirà Paracelso nella Generazione degli elementi che l’aria è la di­mora degli altri elementi e li separa come una muraglia da ciò che è immortale ed eterno …
L’a­ria è Separatrice, Mediatrice, Nutrice, fa spirare i venti, precipitare le piogge, rifulgere gli astri, fiorire le terre, ardere il fuoco, come una Catena che tutto compagini e stringa invisibilmente...
Insegnano i cabbalisti che questa forza della grazia, dell’aria, si mani­festa a un uomo dotato di immaginazione temprata e sottile come una presenza angelica femminile che lo assiste e, dice il Cordovero, questa donna angelica lo aiuterà a provvedere talvolta alla donna di carne che il destino gli assegni.
La concezione era anche dei metafisici iranici e dei cantori del Graal in Europa.
Nell’amore cortese una donna offre al cuore genti­le uno specchio della sua possibile perfezione angelica, è l’aria del suo spirito; come potrà l’innamorato non sforzarsi di assomigliare a quell’immagine che vede riflessa negli occhi amati e amanti e sente negli spiriti da quelli emananti?
Così per parte sua egli offre alla donna un’immagine altrettanto trasfigurata. L’uno e l’altra incontra­no negli occhi l’un dell’altra se stessi non come sono ma come furono in origine nella mente di Dio, idee di Dio; ovvero: scorgono negli occhi amati il loro completamento, la metà di se stessi che andò per­duta nel turbine tenebroso e ubriacante dell’incarnazione.
Da quel­l’ubriacatura l’amor cortese li ridesta; dal momento in cui i loro oc­chi si sono intrecciati — come i due serpenti sul caduceo — sulla linea di congiunzione dei loro sguardi, essi vivono in una veglia perenne e i tormenti amorosi e le insonnie servono come prove ascetiche a tenere la mente agguerrita e tesa ad assomigliare all’immaginazione ideale. Talvolta, come presso i poeti arabi e alcuni provenzali, forse un comune umano corteggiamento offre lo spunto a una nobilitazio­ne spirituale, e naturalmente le corti d’amore esigeranno che in tali casi la donna sia già sposata affinché i provvidi strazi non si estingua­no in una conclusione terrestre e giuridica. Altra volta i lamenti, le esaltazioni dell’amore saranno soltanto le metafore di un trasporto mistico, e questo suscita l’apparizione femminile di cui parla il cabalista, il neoplatonico dell’Iran, il sufi arabo di Spagna; apparizione fatale nello spirito di un uomo che abbia educato la sua fantasia vee­mente a mai fantasticare: egli percepirà l’idea divina che nel mondo è l’Aria, nei cieli è la grazia e la sapienza, che è l’involucro del mondo visibile, come figura di donna.
Talvolta forse l’intuizione intellettuale dell’idea e la visione inna­morante d’una creatura di carne si saranno combinate nel destino a un metafisico amante. Quando l’esperienza di certe idee che tutto abbracciano e spiegano dà una gioia sì intensa da apparire sullo schermo d’una depurata fantasia come donna ideale, non è molto importante sapere se un essere reale ha fissato per un momento nella realtà i tratti dell’immagine visionaria e simbolica. Vale la pena di vi­sitare, per chiarire questo gioco, un tempio voudou nei monti di Haiti: potrà accadere di assistere al matrimonio d’un adepto con la forza spirituale femminile che lo sorregge e guida; una donna qualsiasi, di carne e ossa, in tal caso può capitare che si senta posseduta da quella forza divina e, caduta in estasi, ne diventi la opportuna personifica­zione. Con lei l’adepto scambierà gli anelli e offrirà la torta nuziale ai convitati, fra i quali molte volte è presente la futura sposa di carne e ossa, con la quale si stringerà il matrimonio profano di lì a qualche tempo. La posseduta torna, dopo il rito, a essere se stessa: un’estra­nea qualsiasi.
Si narra del poeta sufi che pregò la sua donna di non accostarsi un giorno che nella mente ne aveva stampata l’immagine perfetta.
Non è detto che narrando un tale episodio un maestro sufi non desideri far sorridere. La tradizione della Donna-Sapienza è quasi universale. Emergere dalla pelle d’asino, sentire di vivere un destino per lui intessuto, fu per Lucio di Apuleio tutt’uno con la riverenza, intensa come nessuno dei suoi precedenti amori carnali, ma purissi­ma, per la tenue aria delle notti pervase dal soave splendore lunare. E gli apparve l’immagine di quell’aria: Iside.
Di questo gioco fra intelletto e fantasia è tramato il canzoniere di Petrarca, diario spirituale degli incontri con l’Aria della Grazia, con l’impalpabile brezza della confidenza con Dio, come dice la metafo­ra araba. Questa brezza si può definire per esclusione. E’ tutto ciò che nell’esperienza del divino — tremenda e fascinosa e soave — non può essere calato senza tradimento nelle giuridiche precisioni della teologia mistica, tutto ciò che è ineffabile e aereo e segreto, che è tut­tavia il fondamento d’ogni discorso teologico vivente, è ciò che nes­suna istituzione visibile potrà mai offrire o essere, e di cui nemmeno conviene parlare apertamente poiché lo intende chi lo prova, il «cor gentile»: affinato, senza scoria.
Fine del poeta, dirà il Petrarca, è di Vedere e dire «la verità delle cose» in modo da allontanare gli insulsi. E l’ineffabile tema egli chia­merà aura o pietra o fenice o piombo o Saturno, soprattutto alloro.
Come il Cristo su Pietro-Pietra, Petrarca giocò soprattutto sul nome Laura. In greco laura è pietra, rupe forata (monte segato, Mon Salvato); è la rupe attraversata da una strada, il monastero rupestre, la miniera.
Laurion era la miniera che fece ricca Atene, «la fonte dell’argento, il tesoro della terra» di Eschilo. Essa offriva piombo ar­gentifero, ocra e cinabro. Laura è l’aura o l’aria, lo spirito di sapien­za; è l’auro, il metallo solare o, infine il lauro, femminile in latino la pianta della profezia, della verginità, del genio o angelo custode. Infine Petrarca aggiunse ai bisticci la sciarada: è l’aureo crine, simbolo dell’etere che avvolge il cielo come la chioma il capo. I sacerdoti egi­zi giocavano allo stesso modo componendo geroglificamente la loro difficile sapienza. La melodia struggente del verso petrarchesco mo­stra che questi giochi sono l’unico modo di parlare dell’indicibile, questi scambi vertiginosi e quasi folli sono narrati con la voce più in­tensa, più dolcemente trepida che si possa udire, con la serietà più intima e verace. Laura è dunque l’aria:
L’aura che ‘1 verde lauro e l’aureo crine
soavemente sospirando move
fa con sue viste leggiadrette e nove
l’anime da’ lor corpi pellegrine.

Ma Laura è anche l’alloro le cui foglie hanno, dice Dioscoride, virtù riscaldante ed emolliente: le virtù stesse della caldo-umida aria (se ne assaggia il sapore nel tè di lauro versando, su 4 grammi delle sue foglie e 8 di fiori d’arancio, 200 grammi di acqua bollente).
Lau­ra è l’alloro che Febo bacia, nelle Metamorfosi di Ovidio, e cui gri­da: «Se non mi puoi essere sposa, sarai l’albero d’Apollo!». E ogni albero dalla vasta chioma è simbolo dell’aria, come informa Eraclito Pontico nell’Allegoria di Omero, poiché in esso l’aria s’impiglia, agita e così si mostra.

Che cosa fu il caduceo se non un ramo d’alloro con cui si cele­brava la rinascenza primaverile promossa dalla nuova aria? L’alloro è pianta solare e ignea i cui rami sfregati fanno scintille e che storna i fulmini. Quale sempreverde l’alloro è la fama (l’aura) perenne e la fama trionfa d’ogni altro umano bene, tutto in questo mondo essen­do vento di fama. I colombi, simboli dello Spirito, si cibano di foglie alloro per risanarsi. Con le tenere cime d’alloro si fa una medicina dell’orecchio dice il Mattioli.
Rami di alloro si accendevano per ipnotizzarsi sul loro crepitare e intravedere con mente così assorta e abbandonata il futuro; più il crepitio era fitto, più gli antichi ne trae­avno auspici favorevoli.
Fra i Romani si laureavano perciò gl’imperatori e i poeti a segno di trionfo, libertà, veracità, pace, misericordia e purezza. Gli attributi del Cesari furono i doni del lauro, dell’aria o sapienza: Pax, Hilaritas, Clementia, Benignitas, Fortuna.
L’alloro in­fine non cresce nei luoghi irrigui e non è pieno di fuoco? Non media tra acqua e fuoco? Era la pianta di Esculapio come il serpente ne era animale, l’amante dei luoghi ricchi di acque. Il fuoco in cielo è Apollo, Sole, sottoterra è oro: l’alloro simboleggia anche questo al­chemico commutarsi di solarità in metallo perfetto. Le litanie alla Vergine si diranno lauretane  nel secolo del più vivo petrarchismo.
Laura è l’aura impregnata di fuoco, lo spirito che plasma la materia, la Sapienza:
«uno spirto celeste, un vivo sole - 
fu quel ch’io vidi» (xc).

Laura è la teofania.
Narra la leggenda che Petrarca ripete:
Amore colpì Apollo con una freccia d’oro e Dafne, la ninfa acquatica, con una freccia di piombo. Apollo perciò l’inseguiva tutto infiammato, mentre ella —plumbea — lo fuggiva, finché non fu convertita in alloro, la pianta profumata, dal succo aspro e pungente, mediatrice fra il sole e l’ac­qua.

L’interpretazione alchemica è ovvia. Dalle miniere di Laurion si cavava il piombo argentifero e il cinabro: la plumbea Diana, fredda e umida, e il caldo sole minerale. L’opera metallurgica sugli schisti cristallini e calcarei del monte Laurion bene illustrava il racconto mi­tologico. Vi si cela altresì un’allegoria botanica poiché soltanto in forma di pianta le forze plasmatrici dell’acqua si possono impregna­re di fuoco. La pietra filosofale che muta il piombo in oro, racchiude le virtù dell’acqua lenitiva e del fuoco esaltante. Anche l’amore uma­no deve mutarsi da greve piombo in oro (in biacca e quindi in mi­nio?), da acqua corrente, fuggitiva come il piombo fuso, in pianta di veggenza e di purificazione, dall’aspro sapore. L’amore della difficile sapienza divina somiglia dunque a quello che legò Apollo a Dafne:
la sapienza non riama l’amatore, ma, anzi, gl’impone l’ascesi; per lei l’amore sta sotto il segno di Saturno, del greve piombo, salvo nell’at­timo dell’estasi unitiva, secondo spiegò il cabbalista e dottore petrar­chesco Leone Ebreo commentando i versi:
Talor m’assale in mezzo ai tristi pianti
un dubbio: come posson queste membra
da lo spirito lor viver lontane?
Ma rispondemi Amor: non ti rimembra
che questo è privilegio degli amanti
sciolti da tutte qualitati umane?

Laura è dunque fra i pianeti Saturno, il dio decrepito della cono­scenza, che appare in lei come una figura femminile incantevole, che ispira la conoscenza mistica come un aura pietrificante e beatifica, quella stessa aura che spirava dal verde alloro (o Dafne) incantando Apollo, e pietrificava il cuore del Petrarca come Medusa pietrificò Atlante, il «vecchio Mauro», «quando in selce trasformollo» (cxcvii); o — in un’altra poesia — lo lacera come i cani di Diana stra­ziarono Atteone che osò mirar nuda al bagno la dea, così come Pe­trarca narra d’aver sorpreso Laura, la somma Sapienza, da restarne estatico, tramortito (i cani di Diana sono, spiegherà il Bruno, i «pen­sieri delle cose divine», i quali «divorano questo Atteone facendolo sciolto dalli nodi de’ perturbati sensi»).
Laura raggela, impietrisce il suo amante. E’ come un piombo, il metallo del freddo Saturno, dio della sapienza che riduce in pietra il cuore. Ma in pietra non di malvagità, anzi, in Pietra filosofale, cioè di filosofia; amare la filosofia è «amar sua pace», spiega Dante, è un impietrarsi nella pace, nell’amore della sapienza. Dura come una pietra appare la Sapienza, e cela la sua vita celeste all’uomo, che nel­l’ammirarla e amarla diventa, rispetto a ogni altro desiderio, di pie­tra. La Pietra filosofale, beatrice, colpisce d’amore l’uomo fino al suo cuore che è felicemente di pietra, apatico dinanzi a tutto ciò che sia mondano.
Così Laura (l’aura del sacro) converte il cuore del Petrarca in pietra:
L’ombra sua sola fa ‘1 mio cor un ghiaccio
e di bianca paura il viso tinge:
ma gli occhi hanno vertù di farne un marmo.

La somma Sapienza non è qualcosa che si possa accostare impu­nemente: essa fa misurare l’altezza imperscrutabile dei cieli e la pro­fondità misteriosa degli abissi, schiude una vista cui non regge il cuo­re di carne. E una conoscenza che può volgersi al serafico o al lucife­rico; come dirà il Petrarca alla Vergine, l’inizio del suo percorso mistico fu isidiato dalla possibilità di diventare una pietra non già filosofale, ma stillante vanità:

Medusa e l’error mio m’han fatto un sasso
D’umor vano stillante:
Vergine, tu di sante
lagrime e pie adempi ‘1 mio cor lasso
ch’almen l’ultimo pianto sia devoto
senza terrestre limo,
come fu ‘1 primo non d’insania vòto.

L’amore della difficile Sapienza è assai simile a una passione pro­fana, interminabile, sospirosa e attraversata di pericoli mortali. Come dagli Stilnovisti e dal Petrarca, ispirati al biblico libro della Sapienza, questo amore fu cantato dai poeti dell’Islàm: Ibn ‘Arabi dalla Mec­ca nel 1215, scioglieva consimili lamenti parlando della Sapienza di «colei che è selvaggia, con cui non c’è intimità» perché la contemplazione del divino è una estinzione di ogni tratto sensibile.
Essa è selvaggia e sdegnosa perché, come essenza spirituale, è inaccessibile all’anima che la brama, è simile, oltre che a un saturnino gelo, a un fuoco.
L’uomo spirituale agogna a immergersi in questo fuoco donde spira l’aria sacra e solare:

Di mia morte mi pasco e vivo in fiamme:
strano cibo e mirabil salamandra!
Si soffre di non essere tramutati in fuoco: invano, dice il Petrar­ca,
«l’aura mia sacra al mio stanco riposo/spira sì spesso».
Laura è l’oro alchemico, cioè il seme dell’oro, la luce, la sapienza divina. Microcosmicamente è un’aura interiore, una psiche impre­gnata del fuoco sottile dell’estasi, che raggela il cuore di carne:

Tra le chiome de l’or nascose il laccio al qual mi strinse Amore;
e da’ begli occhi mosse il freddo ghiaccio che mi passò nel core
con la vertù d’un subito splendore.

Ma Laura è come Proteo, ogni forma assume, è ghiaccio e fuoco insieme.
A volte il Petrarca muta d’allegoria, mostrando, invece di una delicata pianta una candida cerva, sacra a Diana, le cui corna sono dorate. Le corna del cervo si rinnovano come le foglie dell’alloro, contengono dunque la virtù dell’immortalità, hanno virtù trasmutatoria. L’occhio spirituale discerne cioè, nelle bozze sulla cervice del cervo, la pregnanza d’una forma formante d’insolita vee­menza, capace di modellare e rimodellare senza tregua la serrata, du­rissima sostanza del corno. E’ sacro il corno sempre ricrescente, per­ché sta all’intersezione del mondo invisibile, delle forme formanti immortali, delle idee, col mondo sensibile. Dove altrove questo nes­so è altrettanto chiaro? Forse soltanto nei semi, nei quali appunto è pregnante, tesa e potente l’invisibile idea formatrice della specie. La sensazione che un corno di cervo in eterno rinnovamento o un seme in procinto di modellare una pianta potevano dare in antico all’oc­chio spirituale, si può forse ricostruire in noi osservando lo spettaco­lo numinoso d’un insetto immobile e fremente al momento della muta. Non stupisce dunque che la cerva petrarchesca dalle corna d’oro (come dire: il forno alchemico animale che in cima secerne, vapora il principio puro animante dell’oro), che una tal cerva si aggi­ri per naturale consonanza fra ombre
ove l’aura si sente
d’un fresco e odorifero laureto.
È la cerva o il cervo totem del greco Aristeo, poi di sant’Eu­stachio o di sant’Uberto, o di re Artù, l’assai citata nei testi alche­mici, simbolo della luce che brilla fra le tenebre mondane. Seguen­dola si raggiunge quella Lauta dei Celti, la fata Morgana, come canta Erasmo di Valvasone nella Guerra fra gli angeli buoni e gli angeli malvagi:
La nobil cerva che di sé non face
Copia ad alcun di tarda mente e china,
E per la qual si ottengon spade ed armi
Fatate al mormorar di dolci carmi.

Quì giunti, si può svelare una fonte assai ignota del Petrarca.
Le confraternite e corporazioni di cacciatori studiati dal Grimm aveva­no nel Medioevo loro riti, parole di passo come i molti mestieri che sollevavano a contemplazione le loro pratiche manuali mercé una simbologia e certi miti, per lo più salomonici. Allorché un cacciatore ne incontrasse un altro nella foresta si svolgeva questo dialogo rituale fra loro: — Dimmi, buon cacciatore, dove lasciasti la bella e gentile donzella? — La lasciai sotto un albero maestoso e andrò a raggiunger­la.
Viva la donzella biancovestita che ogni mattina mi augura fortuna prosperità! Ogni giorno la rivedo allo stesso luogo e quando cado ferito, mi guarisce, e mi suol dire: «Auguro al cacciatore felicità e sa­lute; che egli possa trovare un buon cervo». Il rapporto con la fanciulla-cerva o fanciulla-alce è immemoriale:
Ogni sciamano ha la sua donzella, che ha l’aspetto d’una cerva con corna», dichiara Ivan Colko nella raccolta di interviste con sciamani akuti e buriati di Ksenofontov.
Altra volta il Petrarca, variando ancora i simboli, parla di L’aura fenice:
Una strania fenice, ambedue l’ale
di porpora vestite e ‘1 capo d’oro.
La fenice si rinnova anch’essa, incendiandosi, emblema dell’uo­mo che misticamente viva nel fuoco, nella pura estasi intellettuale, nella fonte delle germinazioni; essa sta sospesa come monile alla Sa­pienza, all’aura sacra, all’anima redenta:
Questa Fenice, de l’aurata piuma
al suo bel collo candido gentile
rorma senz’arte un sì caro monile,
ch’ogni cor addolcisce e ‘1 mio consuma.
Forma un diadema natural ch’alluma
l’aere d’intorno; e ‘1 tacito focile d’Amor
tragge indi un liquido sottile foco
che m’arde a la più algente bruma.
Fama ne l’odorato e ricco grembo
d’arabi monti lei ripone e cela
che per lo nostro ciel sì altera vola.

Dall’alloro alla fenice. La sequenza è già presente, come trapasso dall’alloro al pavone, nel sogno della madre di Dante narrato dal Boccaccio nella Vita di Dante (xxv):
Dico adunque che la madre del nostro poeta, essendo gravida di quella gravidezza, della quale esso poi a tempo debito nacque, dormendo, le parve nel sonno vedere sé essere al piè d’uno altissimo alloro, allato a una chiara fontana, e quivi partorire un figliolo, il quale le pareva pascersi delle bacche che dallo alloro cadevano, e bere desiderosamente dell’acqua di quella fon­tana; e da questo cibo nudrito, le parea che in piccol tempo crescesse e diventasse pastore, e nella vista grandissima vaghezza mostrasse d’aver delle fronde di quello alloro, le cui bacche l’avevan nutricato, e sforzandosi d’a­ver quelle, avanti che ad esso giunto fosse, le parea che egli cadesse; e, aspettando ella di vederlo levare, non lui, ma in luogo di lui le parea vedere un bellissimo paone esser levato...

Il pavone boccaccesco è la fenice stessa del Petrarca e l’intera narrazione certo non è una semplice sequenza di simboli della poesia e della fama. Come non lo è nel Canzoniere la variazione costante sull’alloro, che è aria impregnata di fuoco, che è la psiche retta e per­vasa dallo Spirito, che infine diventa puro Spirito: cerva dalle corna d’oro, fenice solare.
La vicenda allegorica culmina nella «morte di Madonna Laura» neI Canzoniere, con la trasposizione in cielo dell’alloro, rapito dagli dei per essere piantato nei campi Elisi, come Pe­trarca narrerà nelle Egloghe: simbolo del passaggio al di là del limite dell’aria, nell’empireo di fuoco, o anche del passaggio dalla vita atti­va alla contemplazione e anche, nella vicenda di purificazione misti­ca, della cessazione di ogni consolazione sensibile, con cui si conclu­de la prima fase dell’elevazione e della divinizzazione.
Infatti il Pe­trarca incontra Laura all’ora e al dì della morte di Cristo, cioè mo­rendo al mondo:

Era ‘1 giorno ch’al Sol si scoloraro
per la pietà del suo Factore i rai.

Così nella liturgia bizantina l’aer si agita sul calice a significare la morte del Cristo e la calata dello Spirito. Ma il Cristo dopo il triduo risorge e allora Laura muore: incomincia la nuova fase mistica. La morte di Laura

fu per mostrar quant’è spinoso calle,
e quanto alpestra e dura la salita,
onde al vero valor conven ch’uom poggi.

Nei versi di così struggente amabilità del Canzoniere si cela dun­que un monumento eroticamente atteggiato alla Tradizione metafisi­ca e mistica, in cui — come nei testi d’ogni tempo — si parla della Pa­rola creatrice, del significato che emerge dal caos terreno come d’u­na luce d’Ariete, d’un vento primaverile, emergente dall’oscurità in­vernale, d’un triduo pasquale.

Di questa Parola-Luce-Vento è madre l’Aurora, cioè l’intelletto vergine. La metafora dell’aurora già com­pare ai primordi della storia nei Veda, dal fondo della storia emerge questa metafora dell’illuminazione e della divinizzazione, l’Aurora Musis amica:
Quand’io veggio dal ciel scender l’Aurora co’ la fronte di rose e co’ crin d’oro, Amor m’assale; ond’io mi discoloro, e dico sospirando: — Ivi è Laur’ ora.

Le fanciulle ateniesi recavano una verga simbolica, segno dell’A­riete trionfante in terra, dell’Aurora dell’anno, alla primave­ra, l’eiresione. Era un ramo d’ulivo, ma poté esserlo anche dell’affine alloro, altrettanto solare, combustibile. Era coperta di lana (eiros) la verga di primavera, carica dei frutti novelli, e a essa si parlava come a una divina fanciulla, come i contadini di Roma parlarono nell’ ana­loga stagione ad Anna Perenna, al loro cibo d’immortalità in forma di ninfa. Per le vie di Atene si levarono i canti a Laura-Eiresione.
Tutti i beni più preziosi recava Eiresione ad Atene sotto il segno dell’Ariete, la cui lana la copriva, all’aurora dell’anno.
Dal fondo della storia provengono le metafore petrarchesche: né sono avvolte soltanto del profumo delle origini nostre, ma apparten­cono a ogni popolo, a ogni terra dove si sia vagheggiato di diventare divini.
Con quale stupore non ritroveremo questa metafisica, in queste immagini, fra le dense foreste tropicali dell’America, ascoltando le soavi leggende e osservando le delicate costumanze dei Guaranì! Fra loro il lauro (insieme al cedro e alla cannella) è l’alberò cosmico e parlante, le cui ceneri miste a miele purificano (anche l’eiresione ate­niese di anno in anno si inceneriva, come ancor oggi il rametto pa­squale: perciò anche Laura fenice deve rinascere dalle sue ceneri) l’anima dell’alloro guaranì si dice sia pura soavità, come Laura. E l’albero dell’eroe solare, del protosciamano, dell’Apollo guaranì. Con il suo legno si fabbrica l’urna in cui è deposto lo scheletro dei morticini, oggetto di culto, da cui si ricavano responsi divinatori. In certe stagioni, poi, dall’albero stilla la linfa come un balsamo rinno­vatore, un elisir di salute, o forse è la rugiada che sulle foglie s’imbe­ve di virtù rinnovatrice, aurorale. E anche chiamato verga del Crea­tore, asse del cosmo, tramite dell’acqua di vita, della pioggerella in cui si bagnano i morti («lo refrigerio dell’eterna ploia», diceva Dan­te). Da una sua foglia sempreverde, si narra tra i Guaranì, fu_creato il cervo dalle corna sempre rinnovellate.
La ragione del caleidoscopio dei paragoni, della vertigine meta­forale aichemica petrarchesca, troveremo anch’essa nel mondo anco­ra primordiale. Nei linguaggi mistici sciamanici la ridda e io scambio delle metafore è spinta al colmo, la sua esasperazione fa parte della sobria ebbrezza che si vuole indurre.
Talché se profondamente si vuol sapere chi e che cosa sia Laura, ci si inoltri nelle foreste del Paraguay e, avendo occhi per vedere i lauri, e accanto a essi la cannella e i cedri odorosi, e avendo orecchie per intendere gli abitatori ancora per avventura intatti, ancora perva­si della Tradizione che pure animò i nostri antenati, ecco, apparirà la chiara dottrina e la passione di cui è animato il Canzoniere; e si comprenderà perché le Muse, che sanno coprire e svelare la verità, apparvero a Esiodo per rivelargliela e in ricordo gli diedero un ramo d’alloro.

(E. Zolla - Le Meraviglie della natura)

1 commento:

  1. Lo scrittore latino Ovidio nelle Metamorfosi racconta che Apollo si era vantato di saper usare come nessuno l'arco e le frecce, per la sua presunzione Cupido lo punisce colpendolo e facendolo innamorare della bella ninfa Dafne, la quale però aveva consacrato la sua vita a Diana e alla caccia. Dafne chiede aiuto a Diana la quale per impedire ai due di congiungersi la trasforma in un albero, il lauro, sacro per Apollo.
    Nell'ottica cristiana il significato è quello della difesa della virtù della donna che sfugge alle insidie del piacere fino alle estreme conseguenze e la delusione amara per l'amante che ha inseguito un piacere effimero.

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